Le mummie sono uno dei simboli dell’antica civiltà egizia e il prodotto di un’arte millenaria senza pari.
Nell’antico Egitto, la mummia era una garanzia di sopravvivenza nell’aldilà: secondo le credenze religiose, l’anima dipendeva dal corpo perché tramite esso poteva continuare a mantenere il contatto con il mondo dei vivi e, soprattutto, a usufruire delle offerte e del culto funerario.
La mummificazione o imbalsamazione è il metodo con cui questo popolo conservava i corpi dei defunti, preservandoli dalla decomposizione.
Per secoli si è speculato su come gli antichi egizi fossero riusciti a preservare i corpi, fino a farli arrivare fino a noi, ed ora abbiamo addirittura la certezza di come originariamente i corpi venissero imbalsamati: i ricercatori dell’Università di York hanno infatti condotto uno studio approfondito analizzando una mummia del Museo Egizio di Torino.
Grazie ad accurati test chimici eseguiti nei laboratori di medicina forense su questa mummia, risalente al 3.700-3.500 a.C., è stato possibile elaborare l’impronta digitale chimica di ogni componente della più antica forma di imbalsamazione.
Questa mummia preistorica in un primo momento sembrava essere stata creata per caso, resa resistente al decadimento dalle sabbie roventi del deserto. Tuttavia, nuove prove hanno suggerito che il corpo fosse stato imbalsamato volutamente e per questo i ricercatori lo hanno analizzato.
La co-autrice della pubblicazione Jana Jones, egittologa alla Macquarie University di Sidney, aveva individuato i primi indizi di una precoce mummificazione già negli anni ’90, quando stava studiando rivestimenti di mummia di 5600 anni.
Jones era rimasta stupefatta osservando al microscopio i bendaggi: sui tessuti sembravano esserci residui di una resina, un composto comunemente visto su mummie molto più recenti, ma allora le tecniche non erano abbastanza evolute per confermare quello che allora era solo un sospetto.
Sarebbe servita una scrupolosa analisi chimica che la Jones e il suo team sono riusciti a completare solo dopo 10 anni. “Era solo la maledizione della mummia”, scherza la studiosa.
I ricercatori hanno quindi sottoposto campioni del corpo della mummia a una serie di test, risalendo alla precisa composizione chimica dell’antica ricetta per l’imbalsamazione. L’unguento in questione era realizzato con una base di oli vegetali mescolati a gomma naturale, resina di conifere ed estratti di piante aromatiche. In particolare, quest’ultimi due ingredienti sarebbero stati fondamentali per le loro proprietà antibatteriche.
Il balsamo sarebbe stato “una sorta di pasta marrone appiccicosa” – spiega Jones – utilizzata per bagnare le bende di lino o cosparsa direttamente sulla pelle del defunto. Questo accorgimento, combinato con il calore dell’arida sabbia del deserto, permetteva la conservazione del corpo.
Più tardi, però, si cominciò a deporre i morti in tombe lontane dai raggi solari, così – ha aggiunto Stephen Buckley, archeochimico ed esperto in mummificazione che ha collaborato con la Jones – fu necessario adottare ulteriori misure, come la rimozione del cervello e degli altri organi e la disidratazione artificiale in un tipo di sale chiamato natron.
Buckley e colleghi hanno inoltre scoperto che il corpo di Torino apparteneva a un ragazzo.
“Combinando l’analisi chimica con l’esame visivo del corpo, le indagini genetiche, la datazione al radiocarbonio e l’analisi microscopica dei frammenti di lino, abbiamo confermato che questo processo rituale di mummificazione è avvenuto intorno al 3.600 aC su un maschio, di età compresa tra 20 e 30 anni quando morì”, ha aggiunto Jana Jones.
Il team ha infine annunciato che sta conducendo altri studi simili che saranno oggetto di future pubblicazioni.

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